Il cambiamento è inevitabile, nonostante lo stakanovismo degli autoritarismi, e finalmente possiamo vederlo…
Anche nei colori delle nazionali!
Lo scorso agosto la vicecapitana della nostra squadra seniores mi ha infatti parlato di questo articolo di Vanessa Friedman, apparso il 9 dello stesso mese:
From the Women’s World Cup to Wimbledon, a Victory Everyone Can Share
La lettura è stata per me una vera epifania (vedi l’immagine sottostante…) in grado di mettere a fuoco molti elementi che mi ronzavano per la testa, senza che però fossi in grado di metterli nel giusto ordine.
Nell’articolo vengono innanzitutto messi in evidenza una serie di eventi che hanno messo il punto sugli obblighi delle atlete in fatto di abbigliamento, specialmente nello scorso anno:
- 2023 – Coppa del Mondo di Calcio femminile
Sei nazionali infatti rinunciano ai pantaloncini bianchi: Canada, Francia, Inghilterra, Nigeria, Nuova Zelanda e Stati Uniti. - 2023 – Sei Nazioni
La nazionale femminile irlandese indossa pantaloncini blu anziché bianchi. Lo sponsor tecnico si offer di cambiare gratuitamente tutti i pantaloncini bianchi acquistati negli ultimi tre anni con un paio scuro. - 2023 – Eurohokey
Le giocatrici hanno facoltà di indossare pantaloncini, anziché pantagonne. - 2023 – Wimbledon
A seguito del cambio di regolamento da parte del All England Club, Rybakina e Rogers indossano pantaloncini scuri sotto il completo da gioco. - 2021 – Olimpiadi di Tokio
La saltatrice con l’asta britannica Holly Bradshaw si rifiuta di indossare l’uniforme da competizione in due pezzi, optando per un competo intero.
Le ginnaste tedesche indossano un body integrale durante le competizioni. - 2021 – Campionati Europei di Pallamano da Spiaggia
La federazione nazionale sanziona le giocatrici per aver indossato short anziché slip, con una multa di 150 € a testa.
La cantante Pink si offre di pagare la multa alle giocatrici.
Potranno sembrare sottigliezze o casi sporadici, cassabile con un po’ di benaltrisimo, ma è tutt’altro che così…
È infatti un movimento che va oltre l’agonismo, chiaramente in atto e in una direzione ben precisa, in cui lo sport sta diventando un riferimento nella resistenza contro il controllo del corpo delle donne.
Rosa e sciancrato
L’abbigliamento sportivo per le donne ha seguito sostanzialmente due percorsi, paradossalmente opposti, a seconda che lo sport fosse riconosciuto a loro adatto o meno:
- sport “da donne“: gli indumenti veniva appositamente resi sexy;
- sport “per soli uomini“: ti fai andare bene le taglie piccole per gli uomini.
È abbastanza ovvio che percorso abbia seguito l’abbigliamento sportivo femminile per il rugby, considerando che è caduto prima il muro di Berlino che la Federazione abbia ammesso i campionati femminili…
Per renderla visivamente chiara questa è una foto di Sara Barattin in Nazionale nel 2012:
Embed from Getty ImagesOppure, nel 2023, si può rendere anche anche con uno dei commenti a bordo campo della nostra capitana under 16, nel suo ormai famoso contenuto stile:
“Ma guarda sti pantaloncini Piri…
Sembra che abbia il pacco!”
Ovviamente le ho citato prontamente l’articolo di Friedman, sperando di non essere scaduto nel mansplaining… Forse era solo banalmente coachplaining!
L’abito fa il monaco
A convincermi a scrivere dell’articolo del NYT è stata la capacità di Friedman di aiutarmi a mettere a fuoco la causa di molti abbandoni.
Di questi intuivo le difficoltà ma non riuscivo a delineare chiaramente le motivazioni più profonde.
Stiamo infatti parlando di quanto incida sulla visione di sé l’abbigliamento e le implicazioni nelle scelte che questo comporta.
Per capire questo concetto dobbiamo innanzitutto partire dall’articolo scientifico “Enclothed cognition” di Adam e Galinsky , in cui si dimostra empiricamente l’importanza dell’abbigliamento nel nostro modo di interagire, al netto delle nostre intuizioni sul tema.
Più praticamente Elena Bobbola concretizza il concetto con l’adagio “l’abito FA il monaco”.
Vi lascio al suo video per approfondimenti:
Grazie a Elena questo concetto ero già riuscito a metabolizzarlo da tempo.
L’illuminazione arriva però con le riflessioni successive in cui si inoltra l’articolo.
Si salvi chi può!
Il dato che che mi ha veramente folgorato è stata l’altra ricerca citata, “Practical, Professional or Patriarchal?” di Tess Howard , che stima il livello di abbandono tra le ragazze per l’abbigliamento al
70%
Ogni volta che rileggo quella cifra, rimango sgomento…
Certo, la ricerca riguarda il mondo scolastico, ma ipotizzando la metà, rimango comunque sgomento!
Ma ve la immaginate una palestra che perda il 70% dei clienti per la rigidità del “dress code”? Anche solo il 35!
Sul campo
Questo faceva perfettamente pari con quanto riscontrato nell’esperienza personale da allenatore!
Ho sempre intuito che a un certo punto alcune ragazze inizino a sentirsi a disagio con l’identificazione in una giocatrici di rugby e gli stereotipi e i pregiudizi che questo comporti.
Questo si manifestava in particolare una volta raggiunta la piena adolescenza e quello che questo comporta nella costruzione della propria identità, e quella di genere nello specifico.
Per alcune era, e purtroppo rimane, evidentemente troppo affrontare questa estenuante lotta quotidiana nel digerire questa immagine di sé, tanto da preferire l’abbandono della pratica, anche se talentuose, anche se ancora divertite dal gioco.
Il problema stava però principalmente nella difficoltà di riuscire a identificare e verbalizzare le cause del disagio, perché molto viscerale, lontane dalla parte razionale, così da poter trovare insieme una soluzione.
E perdendo il dialogo si perde anche la giocatrice…
Credo però che in alcuni casi che fosse invece chiarissimo loro che una soluzione vera e propria non era possibile, che fosse inutile perdersi in chiacchiere e mettersi a combattere il sistema!
È d’altronde legittimo per un adolescente darsi le priorità su quello che lo affligge in quel momento contingente, in un momento della vita in cui tutto sembra istantaneo.
Per loro quello era lo stato dell’arte per l’abbigliamento e quello che ci si doveva tenere: metti la canottiera!
It’s a long way to the top if you don’t want to wear it!
Il mio capo allenatore, alla sua presa in carico del settore femminile, aveva intuito sin da subito la necessità di dare respiro alle esigenze di identità anche nell’abbigliamento, cercando colori, uniformi, simboli specifici dedicati a loro, così da intaccare gli stereotipi.
Purtroppo, come da manuale, ha incontrato le classiche resistenze in cui ci si imbatte nello spiegare efficacemente questo genere di necessità, così profonde ma altrettanto difficili da far intuire e metabolizzare.
Nella mia esperienza ho infatti purtroppo riscontrato i peggiori scleri quando era ora di scegliere colori, loghi, vestiario… E anche fonts!
Diciamoci una verità scomoda: pochi si curano realmente del progetto tecnico o della coerenza dei valori professati…
Ma su questioni grafiche o estetiche si scatenano vere guerre di religione!
Non è semplice da ammettere, ma è tutto sommato comprensibile.
Sono infatti elementi chiaramente visibili dell’identità, che è molto probabilmente l’elemento più importante che abbiamo.
Questo sia a livello individuale, vedi gli abbandoni di cui stiamo parlando, che a livello di gruppo, che molto spesso dobbiamo leggere tribù.
La fatica di integrare una nuova un‘identità in una cultura societaria preesistente, molto spesso degenerata nel tribalismo, è di fatto LA storia del movimento femminile nel rugby italiano: introdurre un elemento alieno in una realtà che è sempre stata raccontata fieramente virile.
Un fatica spesso relativamente troppo grande per le risorse e le motivazioni di molte dirigenze, composte quasi sempre in modo preponderante da uomini, il più dei quali avevano ormai cristallizzato il loro percorso di crescita culturale e intellettuale all’epoca dell’ammissione del movimento femminile nella Federazione, con i valori che consociamo di quell’epoca, con cui oggi dobbiamo fare i conti.
La questione dell’abbigliamento consono alle esigenze delle giocatrici rimane quindi chiaramente relegata tra le ultime priorità, più per formazione e consapevolezza personale, che per effettive problematiche concrete.
Nei club in cui è avvenuta un’emancipazione da questa sclerosi, si è dovuto il più delle volte alla dimensione emotiva, grazie a padri facenti parte di queste dirigenze, i quali sono riusciti a ricredersi vedendo le loro figlie divertirsi con una palla ovale senza curarsi degli stereotipi.
Ci tengo infine a far notare, vista la mia stima smisurata nei loro confronti, che se gli alpini hanno fatto un percorso di crescita in tempo record, credo che anche nel modo dello sport si possa fare. E se si può si deve!
In tempi sembrano quindi maturi, o perlomeno migliori, per poter spendere le rivendicazione ottenute nell’alto livello, e quel tragico SETTANTA PER CENTO, come strumenti di leva per tutte le nostre giocatrici.
Quindi, alla richiesta di mettere la canottiera, rispondete fieramente no!
P.s.: vi propongo anche questo ottimo articolo di Alice Castiglione
Le divise delle atlete: diversi sport, stesso problema
che già nel luglio del 2021 affrontava esaustivamente l’argomento.
[Articolo AGGIORNATO con correzioni e integrazioni il 29 dicembre 2023 alle 12:40 – vedi premessa #3]
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